martedì 30 aprile 2013

Polinomi


In matematica un polinomio è un'espressione con costanti e variabili combinate usando soltanto addizione,
 sottrazione e moltiplicazione. In altre parole, un polinomio tipico, cioè ridotto in forma normale, è la
somma algebrica di alcuni monomi non simili tra loro, cioè con parti letterali diverse. Ad esempio

è la somma di tre monomi. Ciascun monomio è chiamato termine del polinomio.
Le costanti sono anche chiamate "coefficienti" e sono tutte elementi di uno stesso insieme numerico o di
un anello.
Quando valutati in un opportuno dominio, i polinomi possono essere interpretati come funzioni.Ad esempio,
 il polinomio

definisce una funzione reale di variabile reale.
Quando questo ha senso, le radici del polinomio sono definite come l'insieme di quei valori che,
sostituiti alle variabili, danno all'espressione polinomiale il valore nullo. Ad esempio,  ha come radici
i valori 1 e 2, poiché

I polinomi sono oggetti matematici di fondamentale importanza, alla base soprattutto dell'algebra, ma
anche dell'analisi e della geometria analitica.
Un polinomio si dice:
ridotto in forma normale, quando è stato semplificato, sono stati accorpati i suoi termini simili e sono
stati eliminati gli eventuali monomi nulli. Ad esempio:

ridotto in forma normale diventa

nullo, se consta del solo zero.
monomio, binomio, trinomio, quadrinomio... se è la somma di 1, 2, 3, 4... monomi.
omogeneo se è la somma di monomi dello stesso grado. Ad esempio:

è omogeneo di grado 2.
Due polinomi sono considerati uguali se, dopo essere stati ridotti in forma normale, hanno gli stessi termini, a meno dell'ordine. Quindi i
polinomi seguenti sono uguali:

Il grado di un polinomio non nullo e ridotto in forma normale è il massimo grado dei suoi monomi, mentre il grado parziale rispetto ad una
variabile è il grado risultante vedendo tutte le altre variabili come coefficienti. Quindi

ha grado due, mentre ha gradi parziali uno rispetto sia a  che a .
Si dicono coefficienti di un polinomio i coefficienti dei suoi singoli termini. Quindi i coefficienti di  sono rispettivamente 2, 1 e 1:
il coefficiente 1 in un monomio è solitamente sottinteso.
Il termine noto di un polinomio ridotto in forma normale è l'unico monomio (se esiste) di grado zero, cioè non contenente variabili. Se non
esiste un tale monomio, il termine noto è considerato generalmente inesistente o uguale a zero, secondo il contesto. Ad esempio, in

il termine noto è l'ultimo monomio: "5".

Formule Solidi


Solidi


La Musica Giapponese


La musica del Giappone

In base alle testimonianze archeologiche, esisteva nell’antico Giappone una prassi musicale dal III secolo a.C. I primi incontri con musiche straniere o continentali sono con quelle che provengono dalla Corea (435 d.C.) e con lo shomyo, il canto buddista. Durante il periodo Nara (710-748) si stabilizzano i fondamenti teorici, attraverso l’adattamento di pratiche religiose e cortigiane straniere e la prima elaborazione dell’alfabeto giapponese, sul modello di quello cinese.

L’insieme di pratiche della religione giapponese antica viene definita Shintoismo – da shin-to, “via degli dèi” – a partire dal VI secolo d.C. per distinguerlo dalla religione buddista, che iniziava all’epoca a infiltrarsi nella cultura religiosa locale fino a fondersi con essa, e dall’influenza di confucianesimo e del taoismo. Fino a quel momento conglomerato di credenze e di divinità locali (dèi della natura, spiriti dei defunti, per cui venivano compiuti riti per placarne le forze) senza nessuna tendenza unificatrice, è basata sull’adorazione di divinità che sono spiriti naturali o presenze spirituali (kami), guardiani di un luogo particolare, oppure specifico oggetto o elemento naturale.

La musica classica giapponese è basata su due modi: ryo e ritsu. La musica di corte è chiamata Gagaku (“musica elegante”), e presenta gli stessi caratteri utilizzati dalla musica imperiale in Cina (yen yueh) e in Corea (aak). I generi della musica giapponese sono classificabili secondo due criteri: le origini storiche o la prassi esecutiva.

In base alla classificazione per periodi abbiamo due generi principali: il togaku, originario dell’India e della Cina, e il komagaku, che proviene invece dalla Corea e dalla Manciuria. Essi restano, non ostante la presenza di repertori di altre regioni come il Sud Est asiatico, e di musiche autoctone, le due nozioni di base per ogni analisi del materiale e delle prassi esecutive.

Termini fondamentali dell’esecuzione del gagaku sono il bugaku, musica che accompagna la danza, e il kangen, musica puramente strumentale. La musica vocale si individua attraverso il genere specifico del brano eseguito. La strumentazione consta di hiciriki, ad ancia doppia, e sho, organo a bocca di 17 canne di bambu raccolte in un serbatoio d’aria. Lo sho produce un grappolo di suoni, sopra le note fondamentali della melodia, benché in origine esse potessero essere prodotte separatamente.

Il ryuteki è la melodia eseguita dal flauto nel togaku, mentre nel komogaku essa è chiamata komabue. Se nel gagaku viene usata una melodia scintoista, si usa il flauto kagurabue, che differisce per dimensioni e intonazione. I principali strumenti a percussione sono il gaku-daiko, un grande tamburo a barile, e il shoko, un piccolo gong. Colui che dirige nel togaku usa un piccolo tamburo a barile (kakko) con due bacchette, nel komagaku un tamburo più grande a forma di clessidra (san no tsuzumi), percosso su un solo lato con una bacchetta.

Cetra su tavola e liuto eseguono solo brevi melodie stereotipe che hanno unicamente la funzione di scandire il tempo, come per il tamburo grande e il piccolo gong. La più antica scrittura musicale giapponese arrivata a noi è costituita da un frammento di notazione per liuto, ritrovato nella camera del tesoro Shosoin (VIII sec d.C.), che contiene anche 45 strumenti che riflettono la  magnificenza e il gusto continentale dell’antica musica giapponese.

Col XIII secolo le cronache di corte e le novelle si uniscono a un numero crescente di partiture, molti titoli delle quali possono essere fatti risalire al patrimonio dell’Asia orientale, mentre altri mostrano il sorgere di uno stile compositivo originale. La notazione gagaku consta in primo luogo di una serie di “aiuti” per la memoria dell’esecutore, dato che la musica in Giappone viene generalmente insegnata come un fatto sonoro piuttosto che grafico.

L’allievo impara per via orale, attraverso l’insegnamento di un maestro, prima di ‘leggere’ la musica. Il modo in cui viene letta attualmente la musica gagaku può differire notevolmente dalla interpretazione originale.

 Il teatro No, che si sviluppa nei secoli XII e XV, consta di narrazioni epiche e drammi. Le rappresentazioni sono accompagnate dal liuto biwa, e si tengono sui palcoscenici dei sacrari shinto o nei templi buddisti. Kannami Kiyotsugi (1333-83) e suo figlio Zeami Motokiyo (1363-1444) fecero evolvere tali prassi fino a far diventare il teatro No modello dello stile teatrale giapponese assieme al teatro popolare (geino).

Il canto è intonato dagli attori principali (shite o waki) in un coro all’unisono (ji) e nel suono di tre tamburi e un flauto, nel loro insieme noti come hayashi. La musica vocale è detta utai o yokyoku. Si basa su modelli buddisti, sebbene i risultati musicali siano sensibilmente differenti dai canti religiosi buddisti. Presentano regole tonali e melodiche rigorose: l’improvvisazione non è ammessa, benché le diverse scuole interpretino le stesse composizioni in modi diversi e impieghino stili vocali differenti.

Per sottolineare i passaggi tra le sezioni e definirne l’atmosfera, e spesso accompagnare le danze, viene utilizzato il flauto hayashi: quattro melodie stereotipe di otto battute, formatesi durante la lunga evoluzione del teatro No e arrangiate nel modo appropriato alla singola danza; si aggiungono particolari forme melodiche che servono a identificare le danze o le loro sezioni (dan).  Il tamburo taiko accompagna solo la danza. Il suo repertorio è costituito di formule stereotipe che di solito si eseguono secondo un ordine prestabilito, consentendo allo spettatore di intuire gli sviluppi dell’azione.

Un simile sistema organizzativo hanno anche il piccolo kotsozumi e il grande otsuzumi. Oltre a accompagnare la danza, questi due strumenti rappresentano l’essenziale sostegno di gran parte della musica vocale. Per assolvere questa funzione, gli esecutori devono conoscere l’intero testo del brano eseguito, così da poter inserire le adeguate formule ritmiche nel contesto della distribuzione sillabica dell’esecuzione.

Anche se l’improvvisazione non è pratica comune, le varie interpretazioni differiscono notevolmente, a differenza che per i classici della musica occidentale. I tre movimenti jo, ha, kyu (introduzione, sviluppo in varie direzioni, conclusione precipitata) vengono spesso applicati a tratti particolari o a strutture più estese; questa distinzione ternaria risulta utile per la comprensione dell’articolazione della musica giapponese e in particolare di quella che accompagna il teatro del No.

Tra il Secolo XVI e il Secolo XIX, si assiste a una significativa crescita delle forme musicali popolari, in seguito all’estensione delle attività mercantili. Nel campo della musica strumentale, la letteratura per il koto si rinnova e i repertori della scuola Ikuta e Yamada diventano gli stili dominanti. La musica proveniente dal koto è combinata con lo shakuachi, flauto dritto di bambu, col kokyu, un liuto ad arco, e lo shamisen, liuto a pizzico di tre corde, per l’esecuzione di musica da camera (sanyoku). Le composizioni contenevano una linea vocale, ma un repertorio solistico di koto si sviluppò nella cosiddetta forma danmono, in cui le variazioni (dan) generalmente di 104 battute sono costituite a partire da una idea melodica di base.

Come nella musica cinese, la musica giapponese è binaria, costruita su un ritmo doppio, ma con frasi di lunghezza irregolari (cinque o sette misure), mentre quelle della musica cinese sono più regolari. Il ritmo è molto simile a quello della musica araba, balinese, javanese o hindustana, il che significa che è costituito da una sensazione di pulsazione, piuttosto che da una scansione regolare del tempo tramite battiti.

Per lo più monofonica, come tutta la musica orientale, include alcuni elementi di polifonia, come il ritmo delle percussioni, marcatamente indipendente, quando non opposto, contrario a quello delle melodie vocali o strumentali. In maniera simile la musica per voce e koto è caratterizzata da un trattamento eterofonico, molto spesso tramite una peculiare tecnica di anticipazione: lo strumento suona le note chiave della melodia vocale una ottava sotto prima che compaia la voce, e viceversa. Le note armoniche sul koto sono usate con moderazione.

Lo shakuachi è uno strumento rilevante anche per il suo repertorio solistico: è possibile creare il massimo effetto attraverso la accurata manipolazione di un materiale assai ridotto. La tensione musicale viene creata principalmente attraverso l’interruzione della linea melodica sul suono che si trova appena sopra o sotto il suono centrale o la sua quinta: l’attesa della soluzione di un tale passaggio coinvolge nell’ascolto, così come la consapevolezza delle progressioni armoniche o dello sviluppo tematico nella musica occidentale, o delle formule ritmiche del tamburo nel dramma No.

Una delle maggiori fucine di nuovi generi musicali furono i ‘quartieri del piacere’ nelle città del periodo Tokugawa o Edo (1603-1868), in cui le gheishe intrattenevano i clienti. Kouta e hauta, due dei generi lirici più suonati, si ascoltano ancora oggi. Combinandoli con lo joruri, lo stile narrativo drammatico del teatro dei burattini iniziato da Yakemoto  Gidayu (1651-1714), si sviluppò il teatro kabuki a partire dal secolo XVIII,;combinando queste due tradizioni con la pratica strumentale di insieme del teatro No (lo hayashi) e i suoi nuovi generi shamisen, si dette vita a un nuovo stile della musica giapponese.

Attualmente il kabuki utilizza tre generi di musica: un genere narrativo, una musica fornita da un complesso presente sulla scena (debayashi), e quella eseguita da un gruppo fuori scena (geza). Ogni genere della musica per shamisen usa voci diverse e strumenti diversi; i vari generi sono così riconoscibili nell’esecuzione. Nel corso del sec XIX i vari strumenti si svilupparono in repertori concertistici, e attualmente è possibile sentirli in teatri  sale da concerto.

Il Geza (musica fuori scena) è un repertorio per shamisen o combinazioni di percussioni il cui scopo è situare la scena in rapporto al luogo, al tempo, all’atmosfera, all’ora del giorno o al carattere dei personaggi. Nella formula del tamburo del kabuki può esser presente la formula stereotipata del No, ma anche quella più vivace dello Shamisen.

L’uso delle scale yo e in nel periodo Edo riflette l’approccio più specificamente indigeno alla musica di quel tempo, che i moderni teorici giapponesi considerano distinguendo quattro tetracordi di base: minyo, miyako, ritsu, ryuku. Ognuno è contenuto nell’ambito di una quarta giusta, all’interno della quale si trova un differente suono intermedio; quando le melodie usate diventano tetracordi ascendenti e discendenti, da queste strutture nascono scale di sette suoni. Il sistema tetracordale permette di interpretare le modulazioni melodiche anche quando sono disponibili pochi altri rifermimenti.

Col periodo Meiji (1868-1912) si intensificano i rapporti culturali e commerciali con l’estero. Durante questo processo di modernizzazione, la cultura musicale tradizionale soffrì innanzitutto della perdita del controllo economico su di essa da parte del sistema corporativo. La prima irruzione della musica occidentale avvenne attraverso le bande militari e il nuovo sistema di istruzione pubblica: solo i diplomati in musica occidentale entrarono nel sistema di insegnamento, così fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale la musica tradizionale venne esclusa dalla scuola.

La musica popolare presenta una situazione più varia e mobile. Il più conosciuto esponente della nuova espressione della musica tradizionale giapponese fu il suonatore di koto Miyagi Michio, mentre Yamada Kosaku fu il principale fautore della creazione di una opera mista orientale-occidentale nella musica lirica e per orchestra. Dal 1950 la scena musicale giapponese si è popolata di un numero sempre maggiore di compositori, quali Toru Takemitsu, che ha creato una estetica giapponese senza ricorrere a uno specifico stile tradizionale.

La Musica Africana


La musica dell'Africa

 La musica africana, nel senso di musica originaria dell'Africa, è estremamente eterogenea, in quanto riflette la varietà etnica, culturale e linguistica del continente. L'espressione "musica africana" viene talvolta usata anche in modo più specifico per riferirsi alla musica dell'africa subsahariana, essendo la tradizione musicale del Nordafrica essenzialmente sovrapponibile a quella mediorientale. Elementi mediorientali si trovano anche nella musica dei popoli della costa est del continente, che risente anche di influenze indiane, persiane e in generale degli effetti degli scambi commerciali e culturali sull'Oceano Indiano. In ogni caso, anche all'interno di queste tre aree principali (Nordafrica, Africa subsahariana, Africa orientale) esiste una grandissima diversificazione degli stili sia della musica etnica tradizionale che della musica moderna. Quest'ultima risente praticamente ovunque (ma soprattutto nei paesi con una forte eredità coloniale) dell'influenza della musica leggera europea e statunitense. D'altra parte, la diaspora africana e il conseguente diffondersi in America ed Europa della tradizione musicale africana ha influito in modo determinante sullo sviluppo della musica leggera occidentale.
Nell'Africa subsahariana la musica e la danza sono quasi sempre elementi centrali e fondamentali della cultura dei popoli, e sono dotati di grande valore sociale e religioso. Ogni etnia ha una propria tradizione musicale così come ha una propria tradizione letteraria e un proprio insieme di regole e credenze; ogni gruppo sociale possiede un repertorio musicale di riferimento e dei sottogeneri appropriati a determinate celebrazioni (per esempio nascita, passaggio all'età adulta, matrimonio, funerale) o anche semplicemente attività quotidiane come il raccolto nei campi e lo smistamento delle riserve alimentari.
Ciò che ritroveremo sempre in ogni variante musicale, a prescindere dallo scopo per cui viene prodotta, è la caratteristica poliritmia, la capacità cioè di sviluppare contemporaneamente diversi ritmi e di mantenerli in modo costante ed uniforme, senza che uno prevarichi su di un altro. Una particolare funzione sociale è rappresentata dalle percussioni e dalle campane che in molte zone vengono utilizzati come strumenti di comunicazione. La musica è, ad esempio, una delle pratiche più note e più impiegate per un griot ( o griotte) proprio perché in molti contesti le relazioni sono spesso basate sull’impatto emozionale. Anche il canto è molto diffuso e riveste una funzione sociale importantissima, durante i funerali, ad esempio, per ripercorrere le tappe dell’esistenza del defunto, dunque mantenerne viva la memoria e per narrare le imprese degli antenati cui spetta il compito di accogliere l’anima della persona mancata. Le epopee mitiche cantate dai griot, oltre a mettere in evidenza il potere costituito, trasmettono gli avvenimenti particolari che fanno parte della storia di una comunità e permettono una trasmissione facilitata proprio dal ritmo della melodia sottostante. Il canto, la musica e la danza diventano da un lato veicoli di tipo simbolico e dall’altro preziosi strumenti della memoria collettiva. La musica tradizionale si trasmette oralmente, dunque non esistono spartiti o forme scritte in cui è possibile rinvenire delle melodie. Tutto viene creato e comunicato direttamente ed è per questo che un aspetto importantissimo è dato dall’improvvisazione.
La complessità ritmica delle musiche africane si è di fatto trasferita a molte espressioni musicali dei paesi dell’America Latina; l’aspetto più affascinante di questa poliritmia è costituito dalla possibilità di distinguere chiaramente i diversi ritmi pur percependoli unitariamente in modo coerente. Per quanto riguarda la voce, è interessante notare che generalmente si utilizzano timbri canori tendenti al rauco e al gutturale. Molte lingue locali, in Africa, sono di tipo tonale ed è per questo che esiste un collegamento molto stretto tra la musica e la lingua. Soprattutto nel canto, è il modello tonale del testo che condiziona la struttura melodica. Conoscendo molto approfonditamente queste lingue, è possibile riconoscere dei testi anche nelle melodie degli strumenti ed è quest’effetto che ha dato fama al cosiddetto “tamburo parlante”.la musica africana è piena di ritmi.




In Africa, la musica tradizionale è caratterizzata proprio dall’utilizzo di particolari strumenti musicali, spesso prodotti con materiali naturali come zucche, corna, pelli, conchiglie anche se attualmente è in uso una vasta tipologia di materiali artificiali, perlopiù in alluminio o in metallo come lattine, stringhe, tappi di bottiglia, bidoni.
Oltre agli strumenti in senso proprio, troviamo una serie di oggetti che pur non essendo classificabili come strumenti, vengono di fatto suonati e definiti da queste stesse popolazioni come "strumenti ritmici", vale a dire: sonagli, pendagli, fischietti, bracciali, conchiglie etc. Fra di essi uno dei più antichi fu l'arco, che oltre alla funzione di arma, nel caso dei Boscimani, grazie alla corda pizzicata o toccata, amplificata da vasi di legno o zucche vuote posti all'estremità, assunse anche il ruolo di strumento.[4]
In etnomusicologia, generalmente si suddividono gli strumenti musicali in quattro grandi categorie:
  • IDIOFONI
Il suono è prodotto dallo strumento stesso senza particolari ausili o supporti
  • MEMBRANOFONI
Il suono è prodotto da una o più membrane che vengono battute con le mani o con bastoni affusolati
  • CORDOFONI
Il suono è prodotto da corde, in cuoio o in nylon, che vengono pizzicate
  • AEROFONI
Il suono è prodotto dal fiato del musicista e canalizzato dallo strumento stesso

La Musica cinese


La musica della Cina


Nell’antica Cina la musica era considerata arte destinata a perfezionare l’educazione dei giovani. La musica non solo aveva funzione didattica ma veniva investita di significati metafisici; era infatti considerata parte di un complesso sistema cosmologico e dalla sua perfetta esecuzione si faceva derivare il delicato equilibrio fra il Cielo e la Terra, e quindi, per estensione, la stabilità dell’Impero.

Nel Liji "Memoriale dei riti", il sistema musicale cinese viene spiegato in base a 5 gradi fondamentali denominati gong (palazzo), shang (deliberazione), jiao (corno), zhi (prova), yu (ali) e viene fatto corrispondere ad altri "gruppi di cinque", fattori costitutivi e caratterizzanti la vita cosmica e umana. Così, per esempio, secondo tale sistema filosofico-musicale, la nota fondamentale gong (fa) corrisponde all’elemento terra, al punto cardinale centro, al colore giallo, al sapore dolce, al viscere cuore, al numero cinque, alla funzione imperatore ecc. Analogamente la nota shang (sol) rappresenta i ministri; la nota jiao (la) rappresenta il popolo; la nota zhi (do) e yu (re) rappresentano rispettivamente i servizi pubblici e l’insieme dei prodotti; oltre, naturalmente, a ulteriori parallelismi tra ciascuna nota e un elemento, un punto cardinale ecc.

La valenza magica attribuita ai suoni, le loro correlazioni cosmologiche e filosofiche possono spiegare certe peculiarità della musica cinese tradizionale; la sua lentezza e il suo mettere in evidenza la materialità di ciascun suono, come fonte di meditazione filosofica.

Il do, come dominante in una composizione musicale, stava a indicare che il pezzo era stato composto per cerimonie sacrificali dedicate al Cielo, mentre la nota re veniva impiegata nelle celebrazioni che riguardavano gli antenati e la primavera. Il sol poteva riferirsi soltanto a brani che concernevano la terra, mentre il la celebrava l’equinozio d’autunno, l’imperatrice e la luna.


Il sistema musicale cinese

Il sistema musicale cinese e i vari problemi tecnici a esso inerenti (temperamento della gamma, natura dei modi ecc.) è stato spiegato in diversi trattai, taluni molto antichi. Alcuni di essi come il Lülü Xinshuo (Nuovo trattato dei Lü, sec. XII) oppure il Lülü Qingyi (Il trattato dei Lü, sec. XVI), descrivono la determinazione del suono fondamentale da cui deriverebbero tutti gli altri. Il suono fondamentale è prodotto da una specie di flauto, ricavato da una canna di bambù lunga circa nove pollici; l’altezza del suono secondo alcuni studiosi si avvicinerebbe al mi3, secondo altri al Fa3. Da esso hanno origine, per progressione delle quinte, gli altri suoni (lü) che sono complessivamente 12, con nomi anch’essi avocanti per lo più un parallelismo con il mondo naturale. Dalla scala dei lü ha origine la scala pentatonica, base del sistema musicale cinese. Verso il 1000 a.C. entrò in uso anche una scala eptatonica, che si formò aggiungendo due note alla gamma pentatonica: il biangong e il bianzhi (bian=mutare). Ma la scala pentatonica fu sempre in Cina la più importante e la più usata (soprattutto per le musiche popolari), tanto da essere definita "cinese" per antonomasia. Trasportando sui ogni grado della scala dei lü la scala ottenuta partendo da ciascuna nota della gamma pentatonica, si ottengono, almeno teoricamente, 60 sistemi modali. Secondo la maggioranza degli studiosi, nell’antica musica tradizionale cinese non furono mai adoperati tutti quanti.

Nell’antica Cina, la musica ebbe un posto di notevole importanza, non solo nelle cerimonie religiose e civili ma anche nel ruolo educativo dei giovani. Nel "Memoriale dei riti" vi è un capitolo intero di notevole estensione sulla musica. Tra l’altro vi si afferma: "la musica nasce nel cuore dell’uomo. Quando il cuore è commosso da cose esterne, la sua emozione si traduce con il tono della voce".

Un noto proverbio cinese dice: "Se vuoi sapere se un Paese è ben governato, ascolta la musica". Leggendo i libri classici cinesi si può notare come la musica dei tempi leggendari appare divisa in due filoni orchestrali. Uno intimamente legato alla vita della corte imperiale con un’orchestra formata da Sheng (una specie di organo a bocca), da Qin (un salterio da tavola con 7 note) e altri strumenti per accompagnare il canto. Il secondo filone, invece, formato da complessi musicali con strumenti come tamburi, campanelli, cimbali che accompagnavano alcuni aspetti della vita religiosa e militare.

Sotto la dinastia Tang (618-907 d.C.), in conseguenza dei contatti avuti con i popoli dell’India, della Mongolia e del Tibet, il patrimonio strumentale e musicale cinese si arricchisce in modo notevole. Tuttavia solo con le dinastie Song del Nord e del Sud, la musica classica cinese raggiunge il suo apogeo. Nel periodo Ming (1368-1644), la musica strumentale, soprattutto nelle esecuzioni del Qin, raggiunge virtuosismi difficilmente superabili.
Dopo le tristi vicende della seconda guerra mondiale e la costituzione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 ad opera di Mao, l’interesse per la musica tradizionale è rinato.


Strumenti della musica tradizionale cinese

Gli strumenti musicali cinesi, alcuni con una storia di oltre tremila anni, si ritrovano, con piccole o grandi modifiche, in quasi tutti i Paesi dell’Asia meridionale e del Giappone. Presentiamo alcuni di questi strumenti che sono di uso comune sia nei concerti come nella musica di accompagnamento dell’Opera di Pechino o del teatro classico.

Strumenti ad arco


Nella musica popolare cinese esistono diversi strumenti cordofoni, cioè dotati di corde, classificati come "liuti ad arco". I liuti cinesi a differenza di quelli europei sono spesso puntuti: hanno una parte appuntita che sporge nella sezione inferiore della cassa e hanno un manico lungo.

Erhu: è il conosciutissimo violino a due corde, come dice il nome cinese. Ha una cassa di risonanza costruita in legno di sandalo rosso coperta solitamente con pelle di serpente o di altri rettili. Viene suonato con un arco diritto, molto simile a quello del nostro violino, fornito di crini di cavallo che vengono però inseriti sotto le corde dello strumento

Jinghu: un altro tipo di violino usato come strumento principale nella musica dell’Opera di Pechino. molto piccolo, quasi la metà dell’erhu, ha il risuonatore cilindrico rivestito di pelle di serpente o di rettile e il manico o collo, in bambù. Contrariamente al suo formato ridotto il Jinghu possiede un suono di volume sorprendente. Nell’Opera di Pechino ha la funzione di accompagnare il canto.

Sihu: violino identico nella struttura, nel materiale e nella forma all’erhu, eccetto il fatto di essere dotato di quattro corde invece di due.

Banhu (板胡, pinyin: bǎnhú) : fa parte della famiglia degli huqin. E' usato principalmente nella Cina settentrionale. Ban significa asse di legno e hu è l'abbreviazione di huqin.
Come i più conosciuti erhu e gaohu, il banhu ha due corde, viene tenuto verticalmente, e i crini passano tra le due corde. Il banhu differisce nella costruzione dall'erhu per il fatto che la cassa di risonanza è fatta in genere da una noce di cocco e invece di una pelle di serpente, comunemente usata per coprire la superficie degli strumenti huqin, il banhu usa una sottile lamina di legno.Il banhu è talvolta chiamato banghu, perché spesso usato nell'opera bangzi della Cina settentrionale.